I ragazzi di Fava
di Riccardo Orioles
Ahimè – dice lo specchio - non sei più un “ragazzo di Fava” ma un anziano
signore un po’ imbranato che sale le scale a fatica per via del sovrappeso. E
come si chiamava q uel giudice? Te lo
ricordi ancora? Giornalista antimafia? Ma a chi vuoi darla a bere?
. Ma i ragazzi di Fava ci sono ancora. Si chiamano Giorgio,
Ester, Salvo, Valeria, Andrea, Norma e sono dei ragazzi come noi allora. Chi ha
fatto un buon giornale per anni (giù al sud della Sicilia) prima di essere
messo con le spalle al muro. Chi ha cacciato il sindaco mafioso (in alta Lombardia)
a colpi d’inchieste. Chi ha fatto l’antimafia in Emilia - organizzazione e
giornali - chi Milano, chi a Roma. Son ragazze e ragazzi fortissimi, buoi,
senza paura. Bbravi nel loro mestiere. Nessuno s’è mai accorto di loro (come
per noi, d’altronde) salvo qualche giornalista vecchio e un po’ matto. Loro
(come noialtri) non ci hanno fatto mai caso. Hanno rifiutato l’ “ognuno per sè”
e “la mia carriera”, la cifra fondamentale del nostro tempo. Forse con le
sconfitte e col tempo cambieranno. Ma ora sono così.
Son tutti ragazzi traditi. Una l’hanno lasciata sola, in
quella notte lunghissima di minacce e lusinghe (“Ti assumo con un sacco di soldi, ma devi scrivere come dico io, solo
per me”). La città minacciata – e non innocente – dormiva. E lei impaurita
e decisa, cogli occhi aperti nel buio, da sentinella. A uno hanno fatto
chiudere il giornale – lui e gli altri venti ragazzi – perché gli masticava
troppa vita: alla gente importante un “Clandestino” in più o in meo cosa importava?
* * *
Si affollano disordinatamente gli amici passati: Scidà che
mise a posto i giudici, D’Urso che fu il primo a deunciare i Cavalieri, P. che
rischiò la vita infiltrato nei mafiosi, “Cotoletta” ferroviere precario,
Antonio operaio a Bologna, Fratangelo che ci portò a un passo dal fare il
quotidiano, Sabina laggiù nel Messico, Fabio il fascista e Lillo di Lotta Continua,
e Fabiolino a quindici anni, e Rosalba, e Cettina e Campanellina e Graziella, e
Sebastiano e Gianfranco… Il nostro piccolo popolo, sgranato in venti città e dentro
trent’anni. Nessuno dei nostri tradì, pochissimi – attraversato tutto – finirono
nei borghesi. Molti, non più ragazzi ma adulti, vivono vita grama, da disoccupati.
Ma senza calare la testa: guardateli negli occhi, quando qualcuno dice la
parola “Siciliani”.
Sono ancora nemici, che lo vogliano o no. Quel che hanno
fatto da giovani non gli verrà mai perdonato. Hanno mostrato a tutti, non come
sciocchi leader ma da banda d’amici, da soldati, che un altro mondo era
possibile, che si poteva fare. Nella Catania dei nobili, dei Cavalieri e dei
servi, di Rendo e Ciancio, hanno portato le migliaia in piazza, hanno costruito
giornali. Non si può raccontare di loro, né nei film né dei libri – senza essere
ingiusti. Perché non sono sei o dodici, i nomi da ricordare, ma più di cento. Un
epos che non puoi rinchiudere in una pagina o in una scena, ma che vorrebbe uno
scrittore di popolo, un Giuseppe Fava. Non essendoci lui, il nostro unico
scrittore è la realtà. Passa di voce in voce, di vita in vita, fa generazioni. E
non sarà cancellata tanto presto.
(Vale la pensa di parlare delle miserie della zona grigia,
del mediocre accanirsi nella decostruzione della memoria, nella riscrittura? Nel
liceo che fu roccaforte dei Siciliani portano a commemorare Fava un fautore di
Ciancio, un collabò sorridente: ma è poi così importante? Davvero credono
facile ricostruire la storia per i ragazzini?).
* * *
Ciancio, trent’anni fa, era monopolista e dittatore – nell’informazione in Sicilia – come ora. Ma
noi, trent’anni dopo, lo contrastiamo (quasi soli: ma suffficienti) come
allora. La Famiglia Rendo, trent’ann dopo, è potente in America (i venti
appalti alla Invision, direttamente da Bush) e nell’Est europeo (i tre quotidiani
acquisiti e riciclati a Budapest). Ma noi ci siamo ancora. Non come vecchi
senatori che ricordano e rimpiangono, ma come ragazzi di venti e trent’anni,
esattamente dli stessi – con altri nomi – di allora. E’ una battaglia impari,
perché la prepotenza e il denaro possono vincere le battaglie. Ma la gioventù,
alla fine, ha sempre vinto le guerre.
* * *
Niente commemorazioni, niente appelli. Chi vuole, sa già
tutto quel che c’è da sapere. Non c’illudiamo d’aiuti di ricchi e di potenti. Ma
i poveri e i ragazzi sono stati generosi, in questi trent’anni. Quasi esclusivamente
loro, e basteranno.
L’unica cosa difficile, in questa guerra, è stato questo
dovere durissimo di raccogliere, generazione dopo generazione, i migliori
ragazzi; e scagliarli in avanti, ciascuno al proprio posto, ad affrontare i
pericoli e a pagare i prezzi. Senza speranza di premio, senza paura di dolore.
Non abbiamo illuso nessuno: chi ha voluto lottare ha saputo benissimo perché
lottava e cosa avrebbe dovuto pagare. Eppure sono venuti in tanti, mai ci hanno
lasciati soli.
Del resto parleremo un’altra volta, delle cose da fare. Un’altra
volta ringrazieremo i colleghi “anziani” (i Capezzuto, i Giacalone, i Luciano
Mirone, i Baldo, i De Gennaro, i Mazzeo…), i quadri veterani e esperti della
nostra banda di giovani.
Per ora, soltanto questo: trent’anni, e noi siamo ancora qua.
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