Pippo Fava e gli invisibili, una
nuova civiltà
di Alfia Milazzo
6 gennaio 2014
CATANIA – “Parole e musica per
ricordare Giuseppe Fava”, è questo il titolo della nostra giornata dedicata a
Pippo Fava. Comincia presto, alle 10 del mattino. Siamo al Gapa, in via Cordai,
47, nel quartiere di San Cristoforo, dove un gruppo di giovani cresciuti nella
scuola del grande giornalista catanese, tra i quali Riccardo Orioles e Giovanni
Caruso, hanno costituito un centro culturale che da 30 anni opera in questa
zona. Arriva il Procuratore Giovanni Salvi. Gli vado incontro sorridendo.
Mentre percorro lo spazio di un corridoio, penso al coraggio e alla dignità di
questo signore, che negli ultimi tempi ha fatto arrestare decine di criminali
delle cosche catanesi, attive nel racket e nello spaccio di droga. E’ un
giudice “intellettuale”. Non si perde mai un concerto dei nostri ragazzi
dell’Orchestra Falcone Borsellino. Li conosce e li applaude come fossero suoi
figli. Seduto sempre in prima fila, ogni tanto mi fa un cenno di approvazione:
“bravi!, esulta compiaciuto. Ma non prende mai la parola. Non ama il microfono
e se deve fare un discorso, lo fa senza enfasi, con umiltà. E ora che gli
stringo le mani, che lo accompagno al suo posto, sento la sua vicinanza
rassicurante. Lo Stato, o almeno una parte dello Stato, che il Procuratore
rappresenta, è qui, seduto in prima fila, per Fava, con i nostri ragazzi e
bambini di San Cristoforo.
Si alza in piedi il presidente
del Gapa, Giovanni Caruso. Inizia a parlare del “direttore” Fava, così ancora
chiamato da questi suoi collaboratori, in quanto direttore del Giornale del
Sud, prima, e de
I siciliani
dopo. Racconta che in questi ultimi trent’anni, da quel terribile 5 gennaio
1984, quando il loro “maestro” fu ucciso dalla mafia sotto il teatro Verga, nei
pressi dello stadio, il loro impegno è continuato attraverso un’attività di
antimafia sociale. Caruso era il fotoreporter di Fava. Qualche anno fa,
purtroppo, ha perso la vista. Con una voce dura che declina però in tonalità di
ferma dolcezza, accusa lo Stato di essere assente, proprio nei quartieri come
quello di San Cristoforo, dove comanda ancora la mafia. Proprio qui, afferma, si
chiudono le scuole, le biblioteche, i centri culturali, e invece dovrebbero
essere raddoppiate le forze che operano nella cultura e nell’educazione, qua
dove la disperazione si congiunge con la morsa del potere mafioso. Inoltre non
si assegnano i beni confiscati alla mafia, manca il regolamento. Con varie
associazioni abbiamo organizzato una conferenza su questo tema, dalla quale è
scaturita la proposta al Comune di una Casa di Associazioni dedicate a Fava e a
Scidà. Attendiamo ancora risposte su questi temi. Lo osservo mentre parla: un libero
Omero contemporaneo che riesce a trasmettere l’ideale di giustizia sociale e
l’etica del giornalismo in un tutt’uno, con la forza di un combattente, che
rinvigorisce gli animi di dignità. Il suo carisma sta tutto qua. Nella
percezione che riesce a creare di un parlare che viene da lontano, ma è saviamente
graffiante nel presente. In cuor mio lo ammiro per questo. Ammiro il Gapa per
il lavoro svolto in questi lunghi anni, anni in cui a Catania vi erano al
governo persone come Scapagnini e Lombardo, che hanno svuotato le casse del
Comune a tal punto da costringere la città al più totale degrado. Fino al lungo
black out elettrico. Anche qui, mancava la luce. Nel nuovo millennio. Deve
essere stato terribile attraversare queste vie strette, reticolari, al buio. Ma
il buio non è solo quello della strada. Vi è il buio delle coscienze. Quello
creato dall’assenza dei diritti fondamentali, dalla povertà, dallo stato
d’abbandono in cui versano le piazze e gli edifici. Piazze in cui i “bambini
giocano accanto ai cavalli dopati, destinati alle corse clandestine, e agli
spacciatori di droga” (così hanno scritto i giovani del Gapa in una
straordinaria lettera alla Presidente Boldrini in visita a Catania 2 mesi or
sono). Il Gapa c’era, a fare fronte. A non abbandonare il territorio. Con la
sua attività sociale, il suo periodico I cordai, le sue denunce di degrado della
città, nello spirito di Giuseppe Fava.
Ma torniamo al nostro evento.
Iniziano i bambini dell’Orchestra Falcone Borsellino. Suonano il primo pezzo,
un Vivaldi. Li dirige Andrea La Monica, giovane maestro italiano che da alcuni
anni segue la scuola creata dalla Città invisibile. Spiega l’importanza di
questo progetto educativo. L’orchestra è un corpo unico composto da parti
diverse, che si armonizzano perfettamente se ciascuno impara a rispettare lo stesso tempo degli altri, e se si
impara ad ascoltarsi a vicenda. Questi bambini, provenienti dai quartieri San
Cristoforo, Librino, Zia Lisa di Catania, da Adrano, Biancavilla e Santa Maria
di Licodia, e da Siracusa, sono un esempio di efficacia del metodo usato dal
Sistema venezuelano creato da Josè Abreu e inserito nel percorso culturale
della Città invisibile. Un percorso che utilizza la musica come strumento
culturale per insegnare il rispetto delle regole.
E’ verissimo. La Città Invisibile
fornisce gratuitamente gli
strumenti, i maestri ed ogni esperienza formativa. Tra i docenti vi sono sempre
stati maestri venezuelani che sono ospitati come volontari della scuola, e applicano
il metodo in modo fedele. In Italia vi sono alcune scuole che si definiscono “Il
Sistema”, solo per il fatto di
essere scuole gratuite per i bambini poveri. Inoltre vi è un ente nazionale,
guidato da esponenti di partiti politici di governo, che dichiarano “Sistema”
attività progettuali che appartengono ai Pon scolastici (e hanno il problema
del fatto di durare fino a quando vengono erogate le somme), o peggio, percorsi
individuali, non orchestrali, in cui i ragazzi coinvolti sono allievi dei
Conservatori o di riferimento dei Conservatori e dei teatri. Questo non è il
vero Sistema Abreu. Il sistema
utilizzato dalla Fondazione città invisibile coinvolge maestri venezuelani, applica una metodologia
autentica, fondata su percorsi di gruppo e raramente individuali. Inoltre la
scuola si svolge fuori dall’offerta formativa della scuola dell’obbligo,
essendo rivolta anche a soggetti in dispersione scolastica. Non gode di
finanziamenti Pon o pubblici. Gli allievi sono bambini provenienti da famiglie
popolari, non frequentano il Conservatorio e frequentano volontariamente i
corsi, senza obbligo scolastico, e solo per il desiderio di farcela. Eppure
queste scuole che fingono di realizzare il progetto di Abreu, hanno ottenuto
finanziamenti pubblici consistenti in Sicilia, per esempio. Il teatro Bellini
di Catania, perennemente in deficit per lo sperpero di denaro pubblico, con
l’associazione Amici della musica di Palermo ha di recente incassato un finanziamento di 4,3 milioni di
euro dal Pon sicurezza, fondi in realtà destinati ai bambini poveri delle città
siciliane, ma assegnati senza bando al tesatro per realizzare un progetto di
legalità con la musica, che coinvolgerà pochi giovani, senza che il teatro
abbia competenze educative sulla
formazione alla legalità. E soprattutto spendendo tanti milioni di euro per un
programma che noi invece realizziamo da anni a costo zero, coinvolgendo oltre
470 ragazzi e 5000 giovani. Con 4,3 milioni di euro in 10 anni avremmo potuto
aprire 600 scuole raggiungendo quasi 3 milioni di bambini, potendo formare
minori non solo siciliani ma di tutta Italia, soddisfacendo una richiesta che ci
viene da tutte le regioni della Penisola. E invece, nonostante i nostri ripetuti e inascoltati appelli
alle istituzioni, La città invisibile è osteggiata dalle istituzioni, persino
nella richiesta di una sede propria. I corsi vengono ospitati nelle parrocchie
delle periferie, in luoghi spesso non abbastanza ampi per svolgervi importanti
prove d’orchestra, che comportano la presenza di un centinaio di piccoli
musicisti. Abbiamo raccontato tutto
questo a tanti giornali. Ma l’argomento è stato trattato molto poco o per
niente. Un sito, Argo, lo ha fatto. Se ci fosse stato Fava con i suoi Siciliani, questi fatti non li avremmo
dovuti denunciare da soli. Li avrebbe scritti lui. Perché dietro la mole di
denaro europeo per PON e altro, si nascondono spesso interessi non proprio limpidi. Del resto lo
dimostrano alcune recenti inchieste della magistratura su alcune prefetture del
centro Italia accusate di turbativa d’asta. Ecco allora che per la prima volta,
in questa giornata dedicata a Fava, mentre ascoltiamo i bambini che suonano
Vivaldi, sento improvvisamente il VUOTO lasciato da lui in questa città. Sì è
vero, ci sono i suoi eredi qui,con noi. Ma Fava, il grande giornalista, il
maestro della verità, rimane insostituibile. Non me ne vogliano gli altri
giornalisti. Ma è così. La mafia, criminale e politco-affaristica, lo ha ucciso
per questo: la sua voce era unica, forte e chiara, spietatamente veritiera,
insomma straordinariamente giustiziera del marcio e della corruzione. Era il
laboratorio di altre voci come la sua. Era un grido unanime contro lo sperpero
di denaro pubblico a vantaggio di soliti noti. E in questo servizio che generava
alla nostra terra, egli era il riscatto dei deboli, della gente onesta, e
quindi anche di quelli come noi, se volete, di tutti noi volontari senza
padroni. "Come è possibile essere uccisi solo per aver scritto degli
articoli?": questa è stata la domanda che più spesso i bambini hanno
rivolto ai volontari della Città invisibile durante gli incontri su Fava.
Domanda pertinente e non del tutto scontata che ha aperto a proficui dibattiti
sul tema del rapporto tra verità, denuncia e giornalismo. Domanda che trova un
risposta solo ora, qui e adesso, tra le note sol e re, tra le piccole dita di
una bambina che suona davanti a me.
L’orchestra cede il passo alle
parole di quel giornalista con giubbotto di pelle e barba nera, che amava
dipingere mentre ascoltava Chopin. Parole combattive, libere, assolutamente
vere, tratte dal suo mirabile articolo del 1983 poco prima che lo
assassinassero: I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa. Lo legge un giovane del Gapa,
Orazio Condorelli. Subito alcuni bambini tirano fuori dal blocco degli spartiti
altri fogli: sono le fotocopie del testo di Fava, un testo su cui i ragazzini
hanno avviato discussioni e domande ai volontari. "Suonerò più forte per
Giuseppe Fava - ha dichiarato la piccola M., 11 anni, di San Cristoforo, dopo
aver preso parte alle discussioni sulla tripartizione della mafia in tre
livelli: uccisori,pensatori e politici - perchè noi bambini spesso a scuola ci
sentiamo come foglietti bianchi senza giustizia, e lui invece i foglietti li
riempiva di parole vere”. Ed eccola qua la piccola M. suonare forte forte,
serena. I suoi occhi hanno assistito a violenze e maltrattamenti. Seguo il suo
capo mentre si china lievemente sullo strumento: la rabbia ha ceduto il posto a
un sentimento nuovo, quello che definirei “di restare”. Sì proprio così: restare. Prima ogni suo gesto parlava di
voglia di fuggire, per non soffrire più, per non dover sopportare certi brutali
regole di vita, imposte dall’alto. Ora è invece determinazione a restare, qua,
con la forza di un articolo e di uno strumento in mano. E anche se domani
dovesse trovare un luogo migliore dove vivere, il suo pensiero resterà a questi momenti di riscatto su
chi ha cercato, senza riuscirvi, di ingabbiare il suo cuore e la sua
intelligenza, per una tacita assurda convinzione che chi nasce in certi
quartieri degradati deve restare (in senso dispregiativo, però) ai margini della bellezza
e della libertà.
L'importanza di leggere Fava,
tutti insieme, è stato colto da questi bambini già dal 2012, quando La città
invisibile li ha inseriti nel progetto dedicato a lui di una libreria gratuita
antimafia chiamata "Buon Libro", sorta nella parrocchia di San
Cristoforo. Un ragazzo, durante una lezione, aveva affermato che Cosa Nostra
uccide quelli come Falcone e Borsellino, invece la mafia catanese non ha mai
commesso omicidi fuori dall’ambito interno di rivalsa di un clan su un altro.
Così abbiamo parlato di Fava. Alla fine il ragazzino ha ammesso che nessuno gli
aveva mai raccontato la sua storia. E da allora non l’ha dimenticata più.
Al termine della recitazione del
testo di Fava, chiedo ai bambini se hanno compreso quale fosse il ruolo dei
cosiddetti “pensatori” descritti nell’articolo. Un ditino si leva dalle ultima
fila, è quello di T. 8 anni: “I pensatori sono quelli che si nascondono
nell’ombra, hanno il compito di organizzare i traffici, riciclano il denaro e
decidono chi deve essere ucciso, con l’aiuto degli uccisori e dei politici”. Risposta
perfetta. Bravo T.! Tutto il pubblico applaude. T. soddisfatto di sé, si
riesiede. T. ha il dono più grande che un bambino della sua età possa avere:
quello di fare tante domande. Domande che noi cerchiamo di non far cadere nel
vuoto. La sua risposta viene da questa sua grande capacità: porsi interrogativi,
talvolta serissimi, sottili. Ha la stoffa del grande giornalista. Se dovesse
intraprendere questa professione, da grande, si ricorderà dello stile di Fava, dei
suoi ragionamenti, del suo metodo, il modo acuto di impostare le inchieste. Un
metodo raro e faticoso, che passerà senza lunghe trafile, ma solo con piccole
staffette, da Fava a T. E questo è uno dei tanti “miracoli” di cui prendo più
che mai coscienza. Fava è maestro ancora oggi, lo è anche di questi bambini.
E fa scuola anche attraverso Dei
Pieri, Giunta, Asero, Mancuso e Spina, i giovani dell’associazione Atlas, che
mettono in scena uno sketch teatrale ispirato al lavoro di Pif. Si rivolgono ai
capi mafia come Riina e Provenzano e concludono ricordando le figure esemplari
di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Fava. Questo momento ci
rammenta che fu proprio il lavoro teatrale di Fava a dare fastidio alla mafia, quasi quanto quello di giornalista.
Non è un caso che l’omicidio sia avvenuto a pochi metri dal teatro. L’opera
teatrale di Fava, L’ultima violenza, aveva aperto la stagione teatrale ’83-’84, allo Stabile
di Catania. Il protagonista di quest’opera ad un certo punto afferma: «Io mi batterò
sempre per cercare la verità, in ogni luogo ove ci sia confronto fra violenza e
dolore umano. E capire il perché ». Fava metteva in scena le sue denunce. I
personaggi dei cavalieri, i pensatori, gli uccisori e i politici, sono tutti
personaggi del suo teatro. Un teatro di denuncia. Un pugno nello stomaco per
quel perbenismo di maniera che animava (e anima tuttora) i salotti della
Catania bene. Penso a quella pagina del romanzo storico Memorie di Adriano, in cui la scrittrice Yourcenar
scrive: “Le nostre raccolte di aneddoti rigurgitano di storie di crapuloni che
gettano i domestici alle murene, ma i crimini scandalosi, facilmente punibili,
son poca cosa di fronte alle mille e mille angherie oscure, perpetrate ogni
giorno da persone cosiddette perbene, ma dal cuore arido, che nessuno si sogna
di molestare”. Ebbene Fava aveva capito che non basta scrivere sui giornali la
verità. La verità doveva essere anche rappresentata in teatro. Il teatro è uno
spazio di reincarnazione in cui la verità può essere veicolata con il pulsante
gioco delle parti, di tutte le parti, denudate dalla costruzione narrativa del
romanzo e arricchite di una prospettiva universale. Il teatro permette di
collocare la verità tra la cronaca e la letteratura, tra la realtà e il
montaggio cinematografico, vincendo le resistenze del lettore, difendendola
oltre i meccanismi della retorica letteraria, in una poetica non convenzionale.
Crescere dentro questo universo
di verità, questo è il percorso di vita che La città invisibile ha ricostruito per
i bambini “invisibili” di Catania. Un modello che ha radici in don Milani, per
esempio, ma anche in don Puglisi. Un giovane di Belpasso, Alfio Platania, delle
Agende Rosse, associazione di Salvatore Borsellino, parla proprio di 3P per
raccontare il modello al quale si ispira nel condurre la sua lotta al racket
della mafia nel suo paese. E lo fa
recitando una poesia in cui usa solo le parole che iniziano per P, come il nome
di padre Pino Puglisi.
Già, la poesia. Ma che cosa
c’entra la mafia con la poesia, con don Milani e con don Puglisi? E con lo
stesso Fava?
La poesia c’entra moltissimo. Come
ricorda anche il giornalista Pino Finocchiaro nel suo intervento rivolto ai
bambini per essere liberi, dalla mafia come da ogni forma di condizionamento,
bisogna conoscere più parole possibili. Lo diceva don Milani: solo la lingua
rende uguali e ogni parola non imparata oggi è un calcio che si riceverà domani.
Ora la poesia arricchisce il
vocabolario di chi la legge. E la mafia, al contrario, specie quella dei
pensatori, tenta di appropriarsi della lingua per forgiare la servitù delle menti.
I giovani delle Agende rosse, come
Platania e personalità come Ettore Marini, presenti a questo evento di oggi, da
anni chiedono la verità sulla strage di via D’Amelio e sulla famosa agenda
rossa di Paolo
Borsellino, trafugata nel momento della strage in via D’Amelio, in cui il
giudice annotava ogni suo pensiero e appuntamento. Chi ha rubato l’agenda di
Borsellino temeva venisse fuori non tanto il suo contenuto, i nomi e cognomi,
ma temeva ancora di più la descrizione, i passaggi reali, le osservazioni, in
essa registrati di un sistema in cui lo Stato e la mafia non solo trattano, ma
addirittura si scambiano favori. Temeva che certe “PAROLE” di Borsellino, diventassero
certezza non solo processuale, ma ben più, che diventassero parole comuni del
linguaggio collettivo. Ed è proprio questa divulgazione di parole appropriate,
emersa dal processo sulla trattativa stato-mafia, questa diffusione mediatica
di un linguaggio nuovo che controlla e accusa parti dello stato colluse,
continua a suscitare reazioni di minacce violente e di campagne denigratorie
nei confronti dei giudici di Palermo.
I nostri bambini dell’Orchestra
sono stati due volte a suonare in via D’Amelio, per affiancare questa richiesta
di verità sulle stragi del 1992. Recentemente hanno sostenuto i giudici di
Palermo, Di Matteo, Teresi Tartaglia, Del Bene, minacciati di morte da Riina. Non
hanno semplicemente suonato, hanno suonato e ascoltato, hanno letto e ragionato,
hanno scritto poesie, pensieri e messaggi. Hanno usato termini che alla maggior
parte dei loro coetanei non è dato conoscere. Dell’aspetto rivoluzionario di
questo processo siamo ben consapevoli. E anche dei rischi. Don Puglisi è stato
ucciso perché tentava di educare i giovani con la cultura, strappandoli alla
mafia. La mafia odia i poeti, odia i giornalisti veritieri, odia e uccide chi
insegna a parlare bene, perché insegna a pensare nella verità. Per questo ruba
l’Agenda rossa contenente i pensieri di Borsellino. Per questo gode della
povertà di linguaggio e prospera in essa. “E’ la mafia che ce l’ha con noi,
dice Riccardo Orioles, e non viceversa”.
Abbiamo cominciato a divulgare e
a leggere la poesia per arricchire il vocabolario dei nostri ragazzi, pur
scoraggiati dai loro stessi insegnanti di scuola, che credevano ci avrebbero lanciato
i libri in testa. Invece, la libreria gratuita, le letture e le conferenze con
gli autori di libri e di poesie, li hanno conquistati, anzi li hanno
appassionati. In pochi mesi abbiamo distribuito solo per libera richiesta,
oltre 500 libri. Ho visto bambini molto umili brillare di gioia per un libro ricevuto
in regalo. Questa straordinaria rivoluzione portata avanti dagli stessi ragazzi
ci lascia sempre attoniti e ci esalta. I bambini vogliono leggere, amano la
poesia, la divorano. Tanto più se provengono da San Cristoforo e da Librino.
Amano la poesia perché, ci hanno dichiarato, leggerla è come respirare. Per tale ragione abbiamo dedicato a Fava
la libreria. Non basta infatti dare da leggere libri. Bisogna insegnare ad
amare la cultura perché possa essere un valido supporto nella conoscenza della
realtà, per potersi creare un’opinione personale da condividere
democraticamente con gli altri. Non basta dire ai ragazzi: leggete! Occorre
leggere con
loro, ma senza farne un sistema di controllo, un ordine accademico; occorre
leggere davanti a loro generando l’orgoglio di una scoperta libera delle
parole, di un arricchimento d’orecchio che si tramuta in un gioco felice della
loro mente che va alla scoperta della verità nascosta nelle parole stesse.
Parte il cortometraggio di Pino
Finocchiaro, L’ultima violenza, un vero capolavoro di cronaca su Fava, sulle
responsabilità della sua morte e sui nodi da sciogliere ancora, con l’intervista
al Presidente Scidà. I bambini sono in sala dalle nove di questa mattina: hanno
suonato, saranno stanchi, penso tra me e me. E invece li vedo attenti,
silenziosi, composti. Registrano tutto ciò che Finocchiaro racconta. Pino è
seduto vicino a me. Si commuove. Questo suo accoramento è felicità. Sapere che
il tuo lavoro offre uno stimolo di crescita nei ragazzi di questa città è un grande successo. Finisce
così, anzi non finisce qua. Ci sono i Giovani Siciliani come Ester di
Sedriano, Premio Fava 2014. C’è il
Gapa. Ci sono i sacerdoti come don Ezio Coco, che resistono in una Chiesa
ancora troppo in bilico tra Cristianesimo e potere temporale.
Ma per noi, ci sono e ci saranno
sempre questi bambini. E’ vero noi rappresentiamo quegli invisibili di cui nessuno
si cura, noi non siamo destinatari di norme ad hoc che sottraggono risorse dai
quartieri poveri abilmente camuffate per assegnarle ai “soliti amici” di
ministri e politici, noi non siamo destinatari di locali opulenti e di gran
classe, destinati invece a pseudo-associazioni o patronati-sindacati vari che
manipolo consenso, noi non ci vantiamo di produrre spettacoli a gratis che
costano in verità qualche centinaio di migliaia di euro, stabiliti dai salotti
buoni e ammantati di quella finta sobrietà ipocritamente etichettata come
“sociale”. Non abbiamo divise scintillanti con marchi trend. E' vero. Ma la
musica prodotta dai poveri strumenti dei nostri ragazzi, le parole di verità di
certi grandi uomini e maestri come Fava, il lavoro e l'impegno messo dai
ragazzi per il raggiungimento di un risultato inaspettato eppure realizzabile,
rappresentano la voce eccellente degli invisibili che ogni giorno “suonano e
lottano” come recita il nostro motto (tradotto da quello di Abreu, tocar y
luchar). Gli
unici che riusciranno davvero a cambiare in meglio la nostra città, il nostro
Paese. Per questo Riccardo
Orioles, direttore dei Siciliani Giovani e collaboratore di Fava, ha affidato loro il
compito di portare avanti il principio di legalità, come paladini dei diritti. Sarà
a loro, agli invisibili della nostra scuola che prima o poi la coscienza di uno
Stato rozzo, colpevole e disattento dovrà riconoscere il merito di essere il
nuovo libero modello di civiltà. L’unico che riuscirà a resistere ad emergere
dalle macerie.
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