martedì 29 ottobre 2013

La solitudine dei giudici terzi. Un saggio di Ardita e Davigo su Micromega


La "solitudine", dover d'essere del giudice imparziale

Sebastiano Ardita


Piercamillo Davigo

"Alla crisi della giustizia e del suo autogoverno - che è espressione della crisi della politica e della società i giudici non devono rispondere cercando di essere credibili agli occhi della politica - ma con un ritorno alla forza del giudicare, all'esserci del giudice , al suo "Dasein"."
È quanto sostengono Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo nel loro Saggio "il magistrato imparziale" uscito sul nuovo numero di Micromega.
Nello scritto si pongono le condizioni per un rilancio politico e culturale della figura del magistrato indipendente, - affinché egli non si limiti a contrapporsi a coloro che sposano una linea politica della giustizia,  ma si impegni politicamente per reclamare gli strumenti della sua impoliticità.
"Si è fatta strada l’idea che le contraddizioni istituzionali, le infedeltà, le ragioni dell’economia, la ragion di stato, messe in luce... nei processi,  dovessero essere risolte con un passo indietro del giudicare – o dell’investigare – e non già con soluzioni politiche" - sostengono Davigo ed Ardita con riferimento alle recenti polemiche sulla giustizia.
Ma gli autori non risparmiano critiche neanche a quanti nel passato hanno ritenuto di utilizzare la giustizia come strumento delle lotte operaie, né al sistema di autogoverno interno che ha prodotto " una magistratura precaria e intimidita nella base ma forte e decisionista nel suo vertice".
Piercamillo Davigo - componente dello storico pool di Mani Pulite ed attualmente giudice della Corte di Cassazione - e Sebastiano Ardita - procuratore aggiunto di Messina - denunciano anche il nichilismo dei nostri giorni, "dentro la politica come dentro la magistratura", rilevando come " da più parti si invochi un giudice eco-compatibile con il potere, impiegato produttore di sentenze, che giuri obbedienza non  alla legge, ma all’autorità, alla disciplina di partito o di corrente, al politicamente opportuno."
La soluzione invocata è quella di una tutela dei "giudici soli" che si preoccupi dell'indipendenza in concreto dei singoli magistrati e di un rilancio di una "idea forte" della giustizia ricavata da argomenti filosofici tratti da autori come Hans George Gadamer e Karl Jaspers,  come Jhering ed Heidegger. Ma non mancano riferimenti a Papa Francesco nell'auspicare una giustizia ispirata dal coraggio e proiettata verso il Trascendente, nella dimensione del giudice solo con la sua coscienza che, all'interno ed all'esterno, " non  sia impaurito dalle correnti, dalla politica, dal carico di lavoro, dal disciplinare".
Viene infine legittimata la dimensione della lotta alla mafia ed ai fenomeni criminali, poiché -secondo l'insegnamento di Jhering nel suo "kampf ums recht, la lotta per il diritto" - "qualsiasi traduzione nel concreto delle leggi comporta un impegno ed una correlativa resistenza". E dunque la complessità del fenomeno criminale organizzato comporta "costanza, impegno, iniziativa e comprensione del vero volto dell'illegalita". Atteggiamenti che devono far parte del bagaglio del magistrato imparziale rovesciando l'idea che la terzietà possa consistere in atteggiamenti burocratici e passivi.
Davigo e Ardita concludono rilanciando l'idea di un giudice umile e cosciente dei limiti della condizione umana - lontano "dall’idea di fondare egli stesso le regole, di sostituirsi col suo agire al legislatore, all’etica, a Dio" - ma non disposto ad arretrare dinanzi alla verità  ed anzi proiettato senza tentennamenti verso il suo dovere essere (Dasein) che " corrisponde alla credibilità dello Stato e  all’idea forte di giustizia che si attendono i cittadini".

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