domenica 27 novembre 2011

Contro l'antico equivoco della "Mafia altrove".


Di Pino Finocchiaro

C’è una linea di demarcazione fortissima tra l’Antimafia Politica e l’Antimafia Sociale. Ne parliamo a Bologna nella sala Di Vittorio della Camera del Lavoro. Perché la politica può mentire, sminuire, travisare per esigenze elettorali o di bieco voto di scambio. In fondo, votano mafiosi e antimafiosi. I voti dei mafiosi sono i più sicuri. Quelli su cui si può contare.

La società civile, invece, si basa sulla verità. Senza la verità, semplicemente, non esiste. Ed è così per l’informazione, solo incidentalmente al servizio dell’antimafia. Perché un cronista ha l’obbligo di scegliere. Decidere se utilizzare il giornalismo come strumento “differente” di lotta politica. Oppure rendersi schiavo della verità dei fatti pur non rinunciando mai a critiche e commenti, sale della democrazia.

I ragazzi di No Name, dedicano l’incontro alla memoria di Roberto Morrione centrando il tema del rapporto tra antimafia e informazione, con particolare attenzione alle forme di citizen journalism antimafia nella realtà di Bologna. Quella di Roberto, mio direttore a Rai News, è un’esperienza professionale paradigmatica. Stefania Pellegrini, docente di Sociologia all’Alma Mater di Bologna, ricorda il suo impegno per far emergere le piccole realtà locali. Alla guida di Liberainformazione, spende intensamente gli ultimi anni, mesi, giorni della sua straordinaria esistenza di cronista. A mio modesto parere, gli anni più belli ed entusiasmanti di un giornalista allievo di Enzo Biagi. Un direttore che agisce da cronista, solitario, quando decide di mandare in onda l’ultima intervista di Paolo Borsellino con le accuse sui rapporti tra Marcello Dell’Utri e il presunto stalliere di Arcore: l’autentico boss pluriomicida di Cosa Nostra, Vittorio Mangano. Uomo coerente, Roberto Morrione, abbandona immediatamente E-Polis non appena Dell’Utri entra nella proprietà del giornale.

Il cronista ha doveri sociali, non politici. Altrimenti è un semplice comunicatore. Un mercenario al servizio di qualsivoglia potere, purché immediatamente solvibile.

Il cronista ha il dovere di farla finita con la prassi politico-istituzionale del dire “la mafia è altrove”. Fa comodo a sindaci, prefetti e ministri dire che la mafia non è qui, nel cortile di casa. Per i catanesi la mafia sta a Palermo, per i siracusani a Catania. Per quelli di Parma a Modena e viceversa. Per le autorità romane, 34 omicidi nella capitale: una sorta di epidemia del tutto scollegata dalle mafie autoctone e internazionali che guidano con polso di ferro usura, racket ma anche affari d’alto bordo come compagnie aeree, grandi alberghi, grandi appalti, ristorazione griffata e griffe del lusso d’alta moda. Il controllo della politica, degli eventi elettorali, dei flussi finanziari, dei prezzi di mercato ne rappresentano la logica conseguenza.

Il cronista-cittadino, con i suoi riflettori accesi, diventa una scheggia impazzita nel grigio sistema di grigie relazioni e opache intese. Come Pino Maniaci, direttore di TeleJato; racconta la verità sulla Svizzera di Cosa Nostra. Voce declamante nel deserto di paure imposte dai Corleonesi di Cosa Nostra, ha il vizio della verità, della tempestività. Pino racconta i fatti di mafia ancor prima che finiscano nei brogliacci degli investigatori. Ora vogliono chiudere la sua tv “comunitaria” come centinaia di tante altre in Italia, grazie ad una legge che difende, tanto per cambiare, gli interessi economici delle tv berlusconiane. E’ un offesa alla grande tradizione del citizen journalism insegnato nelle università americane. Le tv comunitarie del Messico rappresentano l’estremo baluardo sociale nella guerra alla droga, con migliaia di morti, che si combatte ai confini col sud degli Stati Uniti.

In Sicilia, il citizen journalism dà fastidio. Non una voce si alza in difesa di Pino Maniaci e della sua preziosa Telejato. Non una voce politica di sdegno si alza quando il rettore dell’Ateneo catanese non solo non favorisce la nascita di una tv comunitaria ma chiude, imbavagliando di fatto le speranze dei suoi giovani giornalisti, la radio dell’Università catanese. Responsabili di aver pronunciato i nomi dei padroni della città, delle mani sulla città, quegli studenti di giornalismo sono vittime dell’ennesima diaspora dell’informazione, cervelli pensanti in fuga per tutt’Italia, altri pronti a riempire di timbri il passaporto. Potranno parlare di Cosa Nostra a Berlino, dove notoriamente c’è un giudice. Non possono farlo a Catania dove alla guida della procura concorre e sfiora la nomina, un pm ritratto insieme al prestanome di Cosa Nostra ucciso dalla sua stessa cosca e che a quel giudice ha costruito la lussuosa villa dove abita ancora. Un sussulto della società civile impedisce lo scempio. Il nuovo procuratore è Gianni Salvi. Tocca a lui indagare sulla trascurata ricchezza di Cosa Nostra catanese. Non avrà al suo fianco i ragazzi di StepOne. Restano i ragazzi dei siciliani guidati da Riccardo Orioles. Come al solito, non c’è nessun imprenditore disposto a finanziare quest’impresa di verità.

Qui alla Camera del lavoro di Bologna, Gaetano Alessi, fondatore di AdEst e vincitore del Premio Fava 2011 dedicato ai giovani cronisti. Ricorda le infiltrazioni in Emilia Romagna. Mostra un grafico zeppo di cosche di Cosa Nostra, ‘ndrangheta e Camorra impegnate a riciclare i loro loschi quattrini in imprese “pulite”.

Ma non c’è niente di pulito. Lo spiega Gaetano Alessi. Parla delle infiltrazioni nell’aeroporto di Bologna.

Riempie di speranza l’intervento di Danilo Gruppi. Il segretario della storica Camera del lavoro bolognese ricorda le infiltrazioni delle aziende catanesi nell’ampliamento dell’aeroporto di Bologna. Gli stessi Cavalieri del lavoro ritenuti i mandanti morali dell’assassinio del generale prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa – non ci lascia lavorare in pace – e dell’omicidio del giornalista Pippo Fava, direttore del Giornale del Sud e fondatore dei Siciliani, reo di aver rivelato i rapporti indicibili tra il clan Santapaola, imprenditori, magistrati, figure istituzionali e politiche. Una battaglia difficile per il sindacato di Bologna. Battaglia che può essere vinta solo confidando nella verità e nella precisa conoscenza della diffusione del male oscuro tra cortili e portici di Bologna.

Danilo Gruppi centra il problema quando parla dei lavoratori rimasti senza tutele perché alla chiusura di un’azienda di mafia, a Bologna, nulla si può opporre giacché i responsabili sono finiti in carcere e nessuno ne prende il posto.

La chiave di tutto sta nella tempestività di sequestri e confische di aziende. Le mafie vogliono dimostrare che senza i loro sporchi affari, senza l’accettazione supina di lavoro nero e condizioni di lavoro extracontrattuali non c’è lavoro e che il lavoro lo può garantire solo la mafia.

Danilo Gruppi ha la visione giusta del problema. Occorre a Bologna, come a Milano in vista dell’Expo, un tavolo di controllo del fenomeno mafioso con sindacalisti, tecnici, analisti e se vorranno starci imprenditori, chiamato a monitorarne la diffusione, prevenirne le storture – gli autentici disastri – garantire l’occupazione basata sulla produttività, non sull’intrallazzo o l’intimidazione.

Nessun imprenditore pulito può resistere a lungo alle aggressioni delle imprese sostenute dal denaro sporco delle mafie. Questo vale ancor di più in tempi di crisi con i mercati globali e le monete traballanti. Perché la moneta criminale scaccia sempre la moneta frutto dell’impegno e del sudore del lavoratore.



pinofinocchiaro@iol.it

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